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Suggerimento di preghiera
All’inizio e/o alla fine dell’ascolto o della lettura della riflessione, suggeriamo di pregare il Salmo 27. Consigliamo di farlo lentamente e gustando le parole che si pronunciano. Se si assiste alla meditazione in un piccolo gruppo, lo si può recitare in forma comune, lasciando qualche istante perché chi desidera possa rileggere ad alta voce un versetto che l’ha particolarmente colpito.
Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?
Quando mi assalgono i malvagi per divorarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.
Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme;
se contro di me si scatena una guerra, anche allora ho fiducia.
Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario.
Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
Introduzione generale alla Lettera ai Filippesi
Mentre scrive questa lettera, Paolo si trova in prigionia a causa della sua attività apostolica. Di incarcerazioni ne ha subite diverse nella sua carriera missionaria e l’ipotesi tradizionale, da considerare attendibile, lo colloca in carcere a Roma, tra il 60 e il 62 d.C., anche se oggi molti considerano valida anche l’ipotesi di Efeso che collocherebbe la lettera 7-8 anni prima.
Da lì indirizza questa lettera ai credenti in Cristo che si trovano nella città di Filippi, che aveva raggiunto nel suo secondo viaggio missionario (49-50 d.C.) fondandovi una piccola comunità cristiana.
Si trattava di una piccola cittadina della Macedonia, nel nord della Grecia e parte dell’impero romano, centro agricolo e commerciale che, comprendendo gli abitanti della pianura e dei villaggi circostanti, raccoglieva tra i 10 e i 15000 abitanti.
Della comunità a cui Paolo scrive si conosce molto poco. I dati che possiamo raccogliere dagli altri testi del Nuovo Testamento ci lasciano immaginare la presenza di alcune piccole chiese domestiche, i cui membri erano di provenienza greco-romana, di estrazione artigiana o comunque di basso livello sociale, con alcune donne che occupavano ruoli di rilievo.
La comunità, quando Paolo scrive, si trova in forte difficoltà economica e affronta un contesto sociale, religioso, politico ad essa ostile. Non è chiaro dalla lettera chi fossero i nemici e nemmeno precisamente che genere di azioni mettessero in atto, ma è invece evidente che erano in grado di mettere in difficoltà la comunità.
Paolo, dunque, dalla propria situazione di grave difficoltà scrive ad altri credenti, anch’essi in difficoltà e lo fa dando al suo scritto un tono particolare ed inaspettato, quello della gioia.
Lo fa in termini molto concreti, non parlandone in modo astratto, ma facendo riferimento all’esperienza della comunità, indicando quali sono le occasioni di vera gioia e spronando anche a mantenerla come atteggiamento stabile nell’affrontare le cose.
Per far tutto ciò, Paolo fa leva sul concetto di imitazione, che attraversa allo stesso modo, tutta la lettera. Occorre imitare Cristo e tutti coloro che si sono fatti suoi imitatori vivendo il Vangelo, che sia Paolo stesso o i suoi collaboratori. Non si tratta di copiare le azioni di altri, ma di darsi la reciproca testimonianza nel praticare il Vangelo, ciascuno secondo i propri doni.
Il filo rosso di questi cinque esercizi che faremo sarà proprio la gioia. Ogni giorno una sottolineatura diversa a partire dalle raccomandazioni di Paolo alla sua comunità di amici e fratelli.
Lectio del testo di Fil 1, 1-11
Paolo e Timoteo, schiavi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e i diaconi. Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Ringrazio il mio Dio ogni volta ch’io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo.
Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù.
E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
Il prescritto (vv. 1-2)
I primi due versetti sono di presentazione, come era d’uso fare.
Il mittente non è solo Paolo, ma c’è anche Timoteo, suo collaboratore originario di Listra, da dove Paolo lo prese perché lo accompagnasse nel viaggio missionario che stava compiendo insieme a Sila e che avrebbe toccato anche Filippi.
Dunque anche Timoteo partecipò alla fondazione della comunità dei cristiani filippesi.
Si presentano come «schiavi di Cristo» e si rivolgono ai «santi in Cristo». Sono due modi per descrivere una forte appartenenza. Paolo e Timoteo si descrivono come proprietà di Cristo; i Filippesi, invece, sono chiamati con l’attributo di Dio, sono a Lui legati ma non per merito, per volontà sua.
Gli uni e gli altri sono «in Cristo» e questo è il senso dell’essere cristiani: la mia vita è centrata su un altro.
Su di loro annuncia grazia e pace, due parole fondamentali del cristianesimo che raccontano quel che Dio dona con la sua presenza, cioè tutto ciò che è buono, bello, ricco, gratuito, vero… Non è solo augurio. È un fatto.
I primi due versetti sono dominati da «Cristo Gesù». Torna per tre volte e sette in tutto il brano. Il centro non è Paolo, né Timoteo, né i Filippesi.
Esordio di ringraziamento (vv. 3-11)
Dopo i saluti iniziali, Paolo inizia con un ringraziamento.
È il gesto con cui riconosce i Filippesi come un dono e di Dio. Il legame con loro lo spinge ad alzare lo sguardo al cielo e ogni volta che alza lo sguardo al cielo è invitato a riconoscere dei fratelli accanto a sé.
Ma il ricordo non si ferma al ringraziamento, diventa anche preghiera, intercessione, affidamento e una preghiera carica di gioia.
Ecco la prima volta in cui compare il motivo principale della lettera.
Non si tratta di una gioia qualsiasi, ha delle ragioni precise, i motivi che la generano non sono casuali e Paolo li indica subito:
- la loro comunione per il Vangelo
- la convinzione che l’opera buona della loro fede sarà portata a compimento dal Signore.
Si comprende facilmente che non si tratta di una generica allegria, di un entusiasmo passeggero o di euforia per una soddisfazione ottenuta.
Anzitutto è una gioia che sorge per il bene altrui. Paolo vede i Filippesi scegliere la via del Vangelo, sa che sarà il loro bene, che troveranno tanta bellezza e ricchezza di vita e dunque gioisce.
La gioia di Paolo lo porta fuori di sé, ad apprezzare il buon vivere altrui, le buone opere che vanno compiendo, senza invidia, senza gelosie, senza sentirsi messo in ombra, senza bisogno di affermare la propria superiorità.
Inoltre, questa gioia è qualcosa che ha a che fare con ciò che Dio compie e dunque che appare come frutto della sua presenza, del suo impegno a nostro favore. Una gioia che ha la qualità di un dono e di un dono spirituale, come opera dello Spirito.
Come tutti i doni spirituali, dunque, chiede di essere riconosciuta, accolta, custodia da tutto ciò che può insidiarla o deformarla.
Poi è una gioia che nasce dal vedere il Vangelo accolto. Paolo gli ha dedicato la vita, ne riconosce la straordinaria ricchezza e bellezza, la capacità di riempire le esistenze e dunque gioisce nel vederlo accolto.
Ed è giusto, prosegue, che provi tutto ciò, perché li porta nel cuore.
La gioia che prova è autentica perché il legame coi Filippesi non è formale ma è di sostanza. Li porta dentro di sé. Lui che ha fatto l’esperienza di sentirsi «portato dentro il cuore» da Cristo, vive la stessa modalità di rapporto con i suoi fratelli.
Osa ancora di più, dicendo che li ama con le stesse viscere di Cristo. È proprio perché li ama come Cristo li ama, che la gioia che prova è dono di Dio.
Questo legame così intimo e coinvolgente lo spinge a chiedere ancora, a pregare a loro favore domandando il più alto dei doni: l’amore.
Mentre spesso pensiamo che sia solo il prodotto dei nostri sforzi, Paolo ci ricorda ancora che l’amore lo vive ricevendolo da Dio.
E chiede due doni speciali: che cresca la capacità di conoscenza e di discernimento. Domanda consapevolezza e comprensione dei misteri di Dio e dell’uomo. Chiede che sia data la capacità di giudizio e l’intuito che sappia dare il nome alle cose.
Tutto ciò perché possano crescere nella capacità di scegliere ciò che conta, ciò che vale. Se il Signore ci anticipa con i suoi doni, poi la nostra libertà è chiamata in causa, perché siamo noi a indirizzare la nostra vita per la via del Vangelo.
E la vita cristiana è questo costante esercizio di decisione in risposta alla domanda: cosa davvero conta?
Quale gioia?
1. La gioia di Paolo è una gioia che guarda fuori di sé e che lo spinge a trovare motivi di gioia anche al di là dello stretto orizzonte delle sue azioni, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti.
Questo è uno stimolo importante anche per una comunità cristiana: sapere trovare motivi di gioia anche al di là dei suoi confini abituali.
Anzi, si potrebbe forse dire che questo è uno dei compiti di una comunità di credenti nel Signore: avere lo sguardo proiettato costantemente fuori di sé per cercare motivi di gioia in ciò che altri nel mondo costruiscono.
2. La gioia di Paolo è una gioia che viene da un Altro, è la gioia che viene dal suo Signore, colui che ha attraversato la morte prima di entrare nella vita risorta. Dunque la beatitudine che il Vangelo annuncia non è una sentimento superficiale di leggerezza che sarebbe perfino oltraggioso di fronte alle tante situazioni di dolore. Piuttosto è una consapevolezza profonda e pacificata che la vita di ciascuno ha significato per via di Qualcuno che la tiene tra le sue mani. Per questo anche la situazione più difficile, pur nel turbamento, nel disorientamento, nel dolore, può paradossalmente essere accompagnata da una pace profonda.
È un dono da chiedere, una grazia da ricevere, soprattuto in giorni così.